“Ielo tiene per le palle il procuratore capo di Perugia”. La calunnia su cui (stranamente) nessuno indaga. Come mai tutto questo interesse attorno all’esposto di Fava al Csm?

di Beatrice Nencha

Non c’è solo Luca Palamara, ma c’è anche la difesa dell’ex consigliere del Csm Luigi Spina (eletto anche lui da Unicost) a chiedere un confronto con il leader di Autonomia & Indipendenza, Piercamillo Davigo, per le indagini difensive sia nel procedimento disciplinare in corso a piazzale dei Marescialli, che  in quello penale previsto a Perugia.

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Pierluigi Davigo

Nel frattempo, Davigo ha annunciato di non volersi astenere, bocciando la richiesta di ricusazione nei suoi confronti avanzata dalla difesa di Palamara. Restano in ballo però molti passaggi da chiarire, di una vicenda che sta scoperchiando il marcio nella magistratura: dossier per azzoppare altri colleghi, uso “strumentale” dei rapporti personali con i giornalisti, ricatti, diffamazioni e calunnie. Ma quello che colpisce di più è l’assordante silenzio anche da parte di alte toghe tirate in ballo, a torto o a ragione, in questo pasticcciaccio brutto del Csm. A cui correrebbe invece l’obbligo morale di fare chiarezza, anche senza aspettare la convocazione d’ufficio. Almeno per levarsi dal fango e salvaguardare il proprio nome.

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Pignatone e Palamara

E’ per illuminare un po’ meglio il quadro che tenteremo di ricostruire alcuni (ancora confusi) passaggi, che hanno il loro epicentro al tavolo di un ristorante romano in via della Giuliana. Ma questo lo ricostruiremo tra poco. Partiamo, invece, da un interrogativo ancora da chiarire: cosa lega i tre togati Palamara, Spina e Davigo? Secondo le difese dei due “incolpati”, sarebbe la conoscenza dell’esposto sul presunto conflitto di interessi del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, arrivato il 2 aprile 2019 presso la Prima Commissione del Csm, a firma del sostituto procuratore Stefano Fava. Un esposto che, secondo la difesa di Palamara, sarebbe stato a conoscenza del consigliere Davigo prima ancora che Spina (indagato per rivelazione di segreto d’ufficio) lo svelasse, tra il 7 e il 9 maggio 2019 come da contestazione della Procura di Perugia, in qualità di membro della commissione stessa, al collega Palamara, indagato a Perugia per corruzione.

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Sebastiano Ardita

Secondo le indagini difensive degli avvocati del pm romano, Davigo avrebbe appreso dell’esistenza del fascicolo su Pignatone dallo stesso Fava, durante un pranzo romano a marzo 2019. Un pranzo i cui commensali sono lo stesso Davigo, Fava e altri due colleghi: l’attuale presidente della prima Commissione Sebastiano Ardita (stessa corrente di Davigo) e il pm Erminio Amelio. Quest’ultimo, secondo Fava, dal momento dell’arrivo del suo esposto in prima Commissione sarebbe stato il “trait d’union” tra lui e Ardita per ragioni “di opportunità”. Ma torniamo al pranzo tra le quattro toghe, che si sarebbe svolto tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 2019 al Baccanale. A quel desco sarebbe stata offerta a Fava anche una candidatura, con la corrente Autonomia & Indipendenza al Comitato direttivo centrale dell’Anm. Amelio, sentito dagli inquirenti sulla vicenda ha dichiarato che stimava Fava come giudice indipendente e per questo voleva indicarlo ad Ardita, ma che “fu Fava a propormi di andare a pranzo con Ardita e Davigo (..) hanno parlado di vicende relatrive all’associazione, che a me non interessano.. Io rimasi spettatore al colloquio del quale non ricordo i particolari”.

Secondo quanto riportato dal quotidiano “La Verità”, però, tra una portata e l’altra, Fava parlò con Ardita e Davigo dell’esposto contro Pignatone e degli incarichi affidati dagli indagati al fratello, l’avvocato Roberto Pignatone. Un dettaglio confermato da Davigo – che avrebbe riscontrato i pranzi e le cene con Fava – sottolineando che, tuttavia, in una delle due occasioni conviviali era afono, e che si parlò solo di Pignatone, che aveva incontrato al massimo in due occasioni, ma non di Ielo. Se la memoria di Amelio non riesce a fornire maggiori dettagli su questo pranzo, quella di Fava ricorda invece un altro dettaglio non insignificante: “entrambi i consiglieri giudicarono la vicenda (dell’esposto, ndr) di indubbia rilevanza” e meritevole  di  “approfonditi accertamenti da parte del Csm”. E sempre Fava ricostruisce che, a maggio 2019, sarebbe stato Ardita ad avvisarlo che la sua segnalazione era arrivata in commissione (la Prima), e pertanto che riteneva inopportuno continuare ad avere con lui rapporti diretti. Tuttavia, in caso di necessità, Fava aggiunge che avrebbe potuto interagire per il tramite del collega Amelio. E sarebbe stato proprio quest’ultimo a chiamare Fava il 3 giugno 2019 nel suo ufficio, “probabilmente per offrirsi di metterlo in contatto  con l’esponente di Autonomia & Indipendenza”, secondo quanto riportato dal giornale di Maurizio Belpietro.

iphone-chiamate-telefonoUna data importante quella del 3 giugno, per Fava, che ricostruisce così l’episodio: “Ricordo perfettamente di aver sentito Ardita il 3 giugno 2019, giorno precedente l’interrogatorio da me sostenuto a Perugia. La richiesta di colloquio di Ardita mi è stata riferita dal collega Amelio che, il 3 giugno 2019, mi ha invitato ad andare presso il suo ufficio per conferire telefonicamente con Ardita”. Secondo la versione di Fava, tutta da riscontrare, Ardita gli avrebbe chiesto come si sarebbe difeso il giorno seguente davanti ai pm di Perugia. E lo avrebbe sondato su “quale sarebbe stata la mia linea difensiva. Ricordo che nel colloquio telefonico Ardita si diceva preoccupato di doversi dimettere ma non so se questa preoccupazione potesse riferirsi alle intercettazioni tra me e Palamara o a cosa avrei riferito il giorno seguente durante l’interrogatorio o ad altro”.

Nella versione di Amelio, invece, la ricostruzione dell’incontro assume contorni  più sfumati: Amelio non ricorda di aver chiamato Ardita per metterlo in contatto con Fava ma ricorda che “Fava mi disse che Ardita non voleva sentirlo dopo i fatti. E quindi trovo strano che volessero coinvolgerlo in un colloquio con me”.

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Paolo Ielo

Ma c’è una cosa ancora più singolare – e su cui nessuno a Perugia, né a Palazzo dei Marescialli, sembra avere voglia di approfondire – in questa ancora confusa ricostruzione della vicenda, che vede l’intreccio di plurimi interessamenti attorno all’esposto redatto dal pm Fava sui conflitti di interesse di Pignatone e Ielo. La vicenda di una presunta pesantissima calunnia – ricostruita nel memoriale dell’avvocato di Palamara, Benedetto Buratti – sempre nell’ambito delle indagini difensive. Ed è l’ipotesi che proprio il capo del pool romano per i reati contro la Pubblica amministrazione, cioè Ielo, avrebbe messo in piedi – e si vantasse con suoi colleghi al Csm di aver messo in piedi – un ricatto contro l’allora procuratore capo di Perugia Luigi De Ficchy, competente a giudicare i reati dei magistrati capitolini. Questa affermazione, già in nuce,  configurerebbe almeno due ipotesi di reato: o una calunnia contro Ielo, se fosse vera la versione raccontata da Fava ovviamente; o una diffamazione contro Ardita, tirato in ballo da Fava come colui che lo mette a conoscenza di questa “diceria” infamante. E, in entrambi i casi, questa ipotesi configurerebbe un enorme danno alla reputazione professionale di De Ficchy, che in entrambi i casi sarebbe anch’esso parte lesa. Fermo restando che mai si è visto, specie se si parla di un magistrato esperto e di lungo corso, qualcuno che ricatti un altro diffondendo ai quattro venti l’oggetto stesso del suo ricatto (il cui potere consiste proprio nella sua assoluta segretezza).

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Luigi De Ficchy

Lo “strumento” di questo incredibile ricatto sarebbe stato un commercialista, M. S., finito in un’indagine eseguita in prima persona da Fava, magistrato esperto di reati economici. Stando ancora alle dichiarazioni di Fava, Ardita gli avrebbe confidato, sempre a tavola, una frase quanto meno sorprendente: “Paolo Ielo va dicendo al Csm che tiene per le palle De Ficchy per via del suo commercialista”. Alla quale, lui avrebbe ribattuto: “Ma il commercialista l’ho fatto arrestare io e non mi risulta che ci sia materia per un ricatto”. Quello che sarebbe logico chiedersi, in questo dialogo quasi surreale, è una cosa semplice: come è proseguita, a questo punto del discorso, la conversazione tra i due magistrati?  In quanto questa la replica di Fava sembrerebbe destinata a cassare totalmente l’ipotesi del ricatto. Non lo sappiamo, e qui resta aperto un buco considerevole, ma qualcosa deve essere stato aggiunto e anche di rilevante. A quella tavola oppure fuori. Fava ha creduto o meno in questo ricatto al procuratore di Perugia da parte del suo capo? Non è una domanda irrilevante. Come non è irrilevante capire il senso dell’affermazione e il suo scopo, posto che non sappiamo la versione di Ardita, ovvero se sia stato lui a riportare questa voce in quella tavola e il suo intento. Se per avvalorarla, nel caso, o per smentirla. Una eventuale differenza non da poco.

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L’imprenditore Fabrizio Centofanti

Dopo il pranzo a quattro romano, ci sono stati vari altri incontri tra Fava e Ardita finché, a maggio 2019, al bar dell’Auditorium, quest’ultimo avrebbe avvisato il collega dell’arrivo del suo esposto in prima Commissione, quella incaricata dei trasferimenti d’ufficio per incompatibilità ambientale. Evento in forza del quale era meglio interrompere la loro frequentazione. L’intera vicenda era già stata raccontata da Fava a Palamara a maggio 2019, a ridosso dello scoppio del Csmgate. Incluso il dettaglio, cruciale, dell’improbabile ricatto verso De Ficchy, voce circolante anche negli uffici giudiziari e fino alle orecchie di alcuni giornalisti, come rivela un cronista de La Verità, oltre che dall’implacabile trojan che aveva infettato il cellulare dell’ex presidente dell’Anm. Dalle captazioni del suo telefonino, Palamara sembra fomentare, in alcune conversazioni con Fava, proprio il sospetto del ricatto contro De Ficchy (da lui definito “telecomandato”), tirando in ballo anche l’amicizia tra l’ex procuratore perugino e un altro indagato eccellente, l’imprenditore romano Fabrizio Centofanti, amico intimo di Palamara e suo presunto corruttore nell’informativa inviata contro di lui a Perugia dai colleghi romani Ielo, Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini.

eni-29332.660x368Ad oggi, dunque, restano ancora aperti degli interrogativi rilevanti. Specie ora che dalle intercettazioni stanno emergendo episodi di presunti dossieraggi, facendo leva sulla disponibilità di Palamara a segnalarli al Csm, ai danni di altri magistrati come nel caso, ricostruito dal quotidiano La Verità, del pm di Grosseto Alessandra Ciavattini. A partire da un dato puramente materiale: chi ha raccolto le informazioni del cosiddetto dossier Eni, relative agli incarichi affidati dall’azienda petrolifera all’avvocato Domenico Ielo (incarichi professionali regolarmente dichiarati, in ragione dei quali, il magistrato si era astenuto dall’indagine che coinvolgeva l’avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara)? E perché nessuno degli inquirenti perugini sembra aver ancora segnalato alla Procura di Firenze, competente a indagare sui magistrati umbri, l’incredibile ipotesi del ricatto all’ex procuratore De Ficchy, anche solo come per verificarne l’esistenza e l’eventuale danno alla reputazione dei personaggi coinvolti? E come mai nessuno tra i protagonisti di questo “ricatto perugino” – così come per il presunto ricatto “alla palermitana” attribuito ai danni di Pignatone, probabilmente con lo stesso intento di discredito – ha sentito il bisogno di chiarire immediatamente i contorni della vicenda? O almeno di querelare chi, ovvero Fava, ne avrebbe riferito l’esistenza davanti alla difesa di Palamara?

Ma concentriamoci sul presunto scopo (e sull’ipotetico uso strumentale) della “vanteria” attribuita a Ielo nel supposto e mai indagato “ricatto perugino”. A prescindere da chi abbia messo in piedi questa voce (posto che la voce è arrivata all’orecchio di almeno tre persone: Palamara, Fava che la attribuisce ad Ardita, e del cronista della Verità Giacomo Amadori che ne asserisce l’esistenza in determinati ambienti giudiziari. Per arrecare un beneficio tangibile, l’obiettivo di questa calunnia poteva essere uno solo: spingere Fava, l’autore dell’esposto contro Ielo, a non depositarlo, come vorrebbe la prassi, “solo” alla Procura di Perugia (non a caso il 7 maggio Palamara “ragiona” con un collega sull’ipotesi di riuscire a piazzare, a capo dell’ufficio perugino, un candidato che abbia il coraggio di aprire un fascicolo contro Ielo, ndr), e quindi ad attendere svariati mesi o anni prima di un’ipotetica iscrizione nel registro degli indagati, e con essa una successiva segnalazione della Procura competente al Csm, o invece a risolversi con una mera archiviazione. La voce del “ricatto” sembra più che mai adatta, invece, per spingere l’esposto di Fava direttamente al Csm per l’apertura contestuale (eventualmente molto più rapida) di una pratica disciplinare contro Ielo. Una voce ad hoc, quindi, sussurrata per persuadere Fava, e forse anche altri, dell’asservimento di De Ficchy a Ielo. E a prospettargli un esito sicuramente infausto della sua denuncia qualora approdasse in via prioritaria ed esclusiva a Perugia. Mentre l’approdo in Commissione avrebbe avuto, nel caso di un esito positivo ma bastava anche la mera notizia della trattazione della pratica, non solo più speditezza ma anche maggiore clamore mediatico. Poiché un nome di peso come quello di Ielo, insieme a quello del procuratore capo Pignatone, non sarebbe potuto rimanere secretato a lungo. E lo si evince dalla immediata fuoriuscita della notizia – prima ancora dell’apertura effettiva del “caso” al Csm – finita sulla prima pagina di due testate nazionali, Il Fatto e  La Verità, contemporaneamente. Certo poi l’attendibilità del fascicolo sarebbe stata tutta da verificare, ma intanto si sarebbe realizzato il famoso “strepitus”, collegato appunto alla notorietà dei due magistrati di punta di piazzale Clodio.

A nostro avviso, rimangono aperti ancora molti dubbi: possibile che un pm esperto come Fava non avesse verificato l’attendibilità del presunto “ricatto perugino”, nonostante conoscesse i contorni della diceria per aver seguito proprio quelle vicende? O la verifica non era stata effettuata perché, anche per lo stesso Fava, la “scorciatoia” dell’approdo del suo esposto al Csm era un’occasione da preferire rispetto ai tempi lunghi di una denuncia alla Procura umbra? Quello che invece sembra di intuire più chiaramente è che lo “scandalo” contro Ielo e Pignatone dovesse partire, come se già ne fosse stato pianificato con cura il timing, all’indomani stesso del pensionamento di Pignatone. Magari anche per “bruciarne” eventuali successivi incarichi di peso presso altre istituzioni di prestigio (si era parlato per lui di un incarico al Quirinale, ndr). E che i tempi fossero stretti, anche per altre svariate ragioni come la nomina dei nuovi aggiunti, lo svela, in un’intercettazione captata dal trojan, lo stesso Palamara. Mentre discute dell’esposto con l’ex ministro Luca Lotti, imputato per favoreggiamento dalla Procura di Roma nella vicenda Consip, che definisce Fava “un matto”.

Questa la conversazione del 9 maggio 2019, riporta dall’Espresso, in cui il politico renziano discute animatamente con il magistrato proprio su come “spingere” il dossier contro il suo accusatore Paolo Ielo:

Palamara: “quindi la fortuna che cosa ha voluto? Ha voluto che uscisse fuori Stefano (Fava, che farà l’esposto contro Ielo sui presunti conflitti d’interesse del fratello Domenico ndr)…»

Lotti: «Si si, con la sua pazzia…»

Palamara: «Però lui è un matto che ti dice… io ho capito… che cioè tu hai fatto… puoi aver fatto na… ma questi stanno a’ fa peggio… allora a sto punto io li ammazzo… perché siccome non mi frega un cazzo di nessuno, vado fino in fondo…».

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