THE BLACKMAIL

di Ambrosini Alessandro

Premessa

Emanuela Orlandi (foto Gregorj Cocco)

Quello che leggerete di seguito è quella che in inglese viene definita una “suggestion”. Un suggerimento dato da fatti che si concatenano dal 1990 ad oggi. Non è una forma di accusa verso qualcuno,  è l’analisi di ciò che è avvenuto a Roma “nel retrobottega” della storia che conosciamo.  Dietro le ombre che si sono stagliate nitide intorno alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Scavando in una dorsale, che percorre la storia criminale di Roma dalla morte di Enrico De Pedis  alla lettera “non vera ma verosimile” dell’arcivescovo di Canterbury a Londra. E’ la storia di messaggi nascosti tra le parole, di “postini”, di interessi da difendere e di presunti ricatti e ricattati.  Quando incontrai la prima volta il magistrato Otello Lupacchini, gli chiesi come era riuscito a scoprire tutte le ramificazioni della Banda della Magliana, e a sconfiggerla. Lui mi rispose che “ solo guardando dall’alto tutti i fatti, apparentemente disgiunti, si è potuto legarli e dimostrare l’associazione criminale”. In questa inchiesta, con le dovute differenze e senza avere riscontri probatori, abbiamo fatto questo. E’ una suggestion di fatti concreti, un suggerimento  per chi è delegato a investigare. Date e storie si sovrapporranno legate da un filo immaginario. C’è solo una parola che ricorre in tutti questi frame di storia del nostro Paese: ricatto. E’ la stessa parola che molto probabilmente rappresenta il motivo per cui il Vaticano ha cercato di evitare, in ogni modo, di essere coinvolto nel caso di Emanuela Orlandi. Un ricatto nei confronti della Santa Sede, e non solo. Una minaccia latente ma concreta per l’immagine e la sacralità di quelle mura. Una minaccia anche per chi ha aiutato a depistare, omettere e chiudere nel silenzio ogni spiraglio di verità.

Massimo Carminati

Il caso Orlandi, come tutti i misteri d’Italia, si è nutrito di “piste” che sono tra il vero, il verosimile e il palesemente falso. In questa inchiesta, siamo partiti dal vero per accertare il verosimile. Abbiamo guardato dall’alto e complice involontario “ un postino”, abbiamo creato uno scenario. Dove “il bendato”, come lo chiamava uno degli usurai della banda della Magliana, si staglia nitido all’orizzonte. Non come protagonista del rapimento di Emanuela. Ma come possibile detentore di documenti che possono fare luce su ciò che rimane uno dei più intricati e incomprensibili misteri italiani.  

I fili hanno bisogno di nodi per legarsi. Questa inchiesta manifesterà esattamente questo: il nodo che lega volti e nomi che spaziano nel tempo, da Roma a Londra. Una “testa di legno” della comunicazione sotterranea, quella tra mondi più o meno sommersi. Non è un mondo di mezzo, non è un mondo al contrario. quello di cui parleremo è un mondo di ombre.

2 Febbraio 1990 /La morte di De Pedis e “ l’eredità criminale”

Omicidio De Pedis

E’ il 2 Febbraio del 1990. In via del Pellegrino, nel cuore di Roma, è ucciso Enrico De Pedis detto Renatino. Riconosciuto come uno dei boss della Banda della Magliana e indiscusso leader dei “testaccini”, la “batteria” che più di tutti salì i gradini del potere della Capitale. Sia in termini economici, sia in termini di relazioni e potere. Il “mondo di sotto” che si è fatto “mondo di mezzo”. La “soluzione” dei problemi conto terzi. I tessitori di rapporti con autorità ecclesiastiche, politico- istituzionale, economiche, mafiose e con il sottobosco dei servizi segreti.

In quel momento, tra gli uomini vicini a De Pedis, il più rappresentativo e il più determinato è Massimo Carminati. Milanese di origine, intelligente, calcolatore e con l’aura di rispetto e credibilità che la Roma “di strada” riserva a chi viene dal Nord. Sembra una peculiarità banale ma l’ho riscontrata personalmente nei miei anni “romani”. A metà tra la criminalità e l’eversione di destra, rappresentata a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 dai Nar, fu il dominus di una liaison che vide una parte del mondo dell’estremismo politico romano andare a braccetto con forme di criminalità organizzata. Prima per questioni di latitanza e riciclaggio, in seguito in un rapporto organico. I Nar non sono mai stati un monolite. Erano compartimentati per necessità, ruoli e fini personali.

Danilo Abbruciati

Inserito da Franco Giuseppucci all’interno del sodalizio criminale, si legò al gruppo di De Pedis, Abbruciati, Maragnoli, De Tomasi, Pernasetti e Neroni. Il gotha dei “testaccini”, che avevano nell’usura e nel gioco d’azzardo il loro core business “di strada”. In cui, lo stesso Carminati, ne era protagonista attivo per la riscossione della percentuale mensile delle bische.

E’ proprio il “nero”, “il bendato” a prendere il testimone del “Presidente”. E’ lui che eredita rapporti ad alto livello, prestigio criminale e anche i crediti che alcune bische dovevano a De Pedis. Rapporti che implicavano segreti inconfessabili con uomini dei servizi segreti, con boss della malavita organizzata, con politici e con quel mondo grigio e massonico che si alimenta nella Capitale.

16 Luglio 1999/ La genesi

Tribunale di Roma

Quello che successe il 16 Luglio del 1999 dentro il Tribunale di Roma, definirlo furto è eufemistico. Guardandolo con occhi critici, sarebbe giusto definirlo un tour organizzato nel caveau della Banca di Roma e in alcuni uffici della Procura. E’ organizzato, preparato nei dettagli. Nulla è fatto a caso e tutto sembra orchestrato per essere portato a termine senza problemi. Il finto furgone dei carabinieri, alcuni militari dell’Arma “infedeli”, un basista che procura chiavi e tesserini magnetici per entrare agevolmente senza fare rumore e senza attirare l’attenzione del commissariato di Polizia interno al Tribunale. Che dista solo 70 metri dalla Banca.

Le cassette aperte nel caveau

C’è una lista precisa di cassette di sicurezza da aprire. Dietro ad ogni nome cui appartengono le stesse, c’è qualcosa più prezioso del denaro, gioielli e oro da rubare. Avvocati, magistrati e funzionari hanno depositato in quelle cassette i propri segreti e alcune carte “scottanti” sulla reale storia della Repubblica Italiana.

Domenico Sica

Tra le vittime del furto c’è un nome che spicca: Domenico Sica, magistrato e Alto commissario nella lotta alla mafia.  Una figura in chiaroscuro che indagò anche sul caso di Emanuela Orlandi. Cosa c’era in quelle cassette non tutti lo dicono. Lo stesso Sica risponderà così ai giudici a Perugia: “Una parte della destinazione della cassetta risale a un’epoca in cui ero Alto commissario. Quindi non lo so, sarei anche tenuto alla riservatezza su quello che poteva contenere la cassetta, ecco…”.

Che sia un furto “conto terzi” non è in dubbio. Il bersaglio è troppo grosso per i “cassettari” che hanno partecipato a questa razzia. Troppo anche per lo stesso Carminati. I militari coinvolti diranno che sono stati pagati con una manciata di milioni. Una mancia quasi non dovuta. Quasi che, la collaborazione dei carabinieri coinvolti, fosse stata “ordinata” da qualche superiore. Da rilevare un fatto: dopo il furto, il funzionario di polizia che dirigeva il commissariato all’interno della cittadella giudiziaria fu trasferito. Contemporaneamente, il comandante del reparto dei carabinieri che aveva il compito di sorvegliare il tribunale, fu promosso.

Altro particolare, che spesso sfugge alle cronache rispetto a questo fatto, è che non furono setacciate solo le cassette di sicurezza. Infatti, le gesta della “batteria” di ladri si estesero anche a tre uffici molto particolari. Uffici di magistrati che avevano nelle proprie competenze inchieste per terrorismo, eversione e banda della Magliana. In tutte le stanze, i ladri, lasciarono tracce della loro presenza: dal dott. Guglielmo Muntoni un oggetto a forma di apriscatole servito per rimuovere il disco rigido del computer, dalla dottoressa Laura Capotorto la polvere del soffitto quando rimossero la telecamera di sorveglianza e dal dott. Otello Lupacchini i resti di quello che sembrò un pic-nic. Un piccolo “schiaffo morale” che voleva dimostrare che loro possono arrivare ovunque e da chiunque. Un messaggio che qualcuno definirebbe “mafioso”, ma che fa parte della “criminalità di strada”.  Carminati fu condannato a quattro anni per questo reato che oltre ai documenti portò diversi miliardi di lire nelle tasche del nuovo “Presidente”. Non lo nascose e lo affermò, quasi come un monito durante il processo di Mafia Capitale: «Lì c’ erano molti documenti, forse, però tra un documento e l’ altro ho preso pure qualche soldo. È ovvio da dove provenga la mia disponibilità economica, solo i carabinieri fanno finta di non saperlo…». Una frase che dice molto più di ciò che leggono i nostri occhi. E dietro a quel messaggio neanche troppo velato, un piccolo avvertimento a chi conosce e teme, ciò che ha Carminati nelle sue disponibilità.

SECONDA PARTE

Sembra un noir e forse è stato disegnato in questo modo da chi riesce a governare nell’ombra il nostro vivere quotidiano. Non so se esista un “grande vecchio” che dalla torre dirige i nostri destini. Vero è, però, che certi nomi ricorrono sempre nelle vicende più torbide. Protagonisti o pedine della verità. Che fanno emergere, mistificano, costruiscono o cancellano la stessa.

Un Re, a Roma, non cresce per caso. Diventa tale per volontà altrui. E i Re, sono fatti cadere quando non servono più. A volte perché pensano di esserlo veramente, e quindi cercano di sfuggire al controllo, a volte perché è necessario per il “grande gioco”. Che non può essere stagnante. Deve essere sempre magmatico e in movimento.  

Massimo Carminati

Massimo Carminati è stato un Re, come lo era stato De Pedis. L’hanno fatto crescere usando due parole: il dubbio e l’intoccabilità. Conditi da una mistica eversiva e pronta al sacrificio. Ha conquistato così la “strada”, ha affascinato così alcune forme di potere. Coerente, affidabile, temuto e protetto. Questo è stato, o lo è ancora, Massimo Carminati. Che, per indole, non ha mai fatto niente per pubblicizzare questo suo status. Sembra paradossale ma è così. E’ stato un padrone di casa silenzioso, con ospiti ingombranti e pericolosi come Cosa Nostra, la ‘ndrangheta, la camorra. E’ stato l’equilibratore di convivenze pericolose. Un milanese nell’anima, preciso, concreto e produttivo.

Neroni racconta Carminati (audio inedito)

Nel Giugno del 2009, quando incontrai Marcello Neroni, mi diede la netta impressione che parlando di lui stesse cercando di sminuirne in qualche modo la pericolosità, per nasconderne l’effettivo valore criminale. E’ abbastanza usuale negli ambienti criminali e lo sentirete in quest’audio. Dietro al suo ego volgare, Neroni usa parole precise. Mai lasciate al caso, quando parla di “Massimo”. Con lui ed Ettore Maragnoli, elemento organico alla Banda della Magliana, gestivano il mondo delle slot machine a Roma. Un business miliardario. Superiore a qualsiasi altro “movimento criminale” di quel periodo.

Dicembre 2014. Cambio di sistema in corso. Il Re deve cadere!

Carminati è uno di quei personaggi che, dal punto di vista delle forze dell’ordine, non puoi farlo rimanere senza un controllo costante. Sai bene che, seguirlo o intercettarlo non sono mai esercizi inutili. E’ la Dia che l’attenziona e lo fa con tutti i mezzi del caso. Applica microspie nel raggio di cento metri dalle sue attività e nella sua macchina, lo pedina (come sentiremo dalla voce di Neroni), segna ogni suo incontro. E’ un personaggio ad alta pericolosità e la Dia gli riserva un trattamento silenzioso ma efficiente.  

Giuseppe Pignatone

Un trattamento che però sembra non bastare quando a diventare Procuratore generale di Roma arriva Giuseppe Pignatone. Che toglie la delega alla Direzione investigativa antimafia e la affida ai carabinieri del Ros, con cui ha sempre lavorato. Le sue “guardie nere” Questa sostituzione inaspettata porterà Carminati a essere arrestato per l’inchiesta “Mondo di Mezzo”, nel Dicembre del 2014. Sembra la chiusa finale di un libro a tinte noir. Non sarà così. Sarà solo l’inizio del presunto ricatto.

Alessandro Diddi

Carminati fa buon viso a cattivo gioco e attenderà il processo per mandare il primo messaggio con riferimento ai documenti sottratti al caveau della Banca di Roma nel 1999. Insieme con lui, sulle pagine dei giornali di tutto il mondo finirà anche Salvatore Buzziil “socio che viene dall’altra parte”, come provenienza politica. A difenderlo sarà Alessandro Diddi, ora Promotore Vaticano. Una parabola inaspettata da tutti, quella dell’avvocato, sostenuta con forza da alcune eminenze a San Pietro.  Parabola non diversa per Giuseppe Pignatone, dominus dell’accusa nel processo a Carminati e ora Presidente del Tribunale vaticano. Una reunion interessante che vedrà Alessandro Diddi guidare l’inchiesta sul caso di Emanuela Orlandi.

Aprile 2017. Primavera di tesori nascosti e messaggi senza postini

La primavera porta sempre una ventata di positività. Non per Carminati, che in regime di 41 bis è escluso personalmente dalla sua vita romana, dai suoi affetti e dalle sue “pubbliche relazioni”. La sentenza di primo grado si avvicina e gli eserciti di avvocati al processo si scontrano duramente con i magistrati titolari dell’inchiesta. Quasi tutti i media spingono per sostenere l’accusa e tutto sembra andare in quella direzione. La mafia a Roma c’è. E’ autoctona e non satellite delle altre organizzazioni criminali.

Il 24 Aprile, l’Espresso esce in edicola con un articolo particolare: Mafia Capitale, così Massimo Carminati ha nascosto il suo tesoro a Londra. L’inchiesta è ben curata e le informazioni sembrano essere uscite da ambienti investigativi. Carminati ha nascosto gran parte dei suoi proventi illeciti a Londra o in altri stati tramite gli ambienti a lui più vicini. Due i nomi particolarmente importanti: Stefano Tiraboschi e Vittorio Spadavecchia. Due ex militanti di un gruppo dei Nar che, con Carminati, non avevano mai sciolto il patto di fratellanza che li univa da giovani. Anche quando diventarono organici alla Banda della Magliana.

Ricordatevi bene quei due nomi. Ricorreranno ancora, in modo significativo. Soprattutto quello di Tiraboschi.

Il 28 Aprile, Report replica la notizia con le foto dell’incontro tra i tre personaggi in questione.

Emiliano Fittipaldi

Tra Aprile e Marzo, succede però un fatto che apparentemente esula da Massimo Carminati. Emiliano Fittipaldi, giornalista d’inchiesta dell’Espresso, ben inserito tra le mura vaticane, acquisisce del materiale inerente Emanuela Orlandi. Sono cinque fogli scritti con una telescrivente o con un font che ricorda una telescrivente. Contengono informazioni che, se il documento fosse vero, scriverebbero la parola “fine” alla ricerca della giovane cittadina vaticana.  

E’, in sostanza, una nota spese che il Vaticano avrebbe sostenuto per cercare e segregare (non trovo termine più adatto) Emanuela Orlandi a Londra. E’ un report dove sono annotate sia le spese affrontate per la ricerca della ragazza, di alloggio presso la sede degli scalabriniani a Londra e mediche presso la Clinica St. Mary. Nello specifico, per le cure svolte dalla ginecologa dott.ssa Leasly Regan. Il giornalista, da subito, cerca riscontri per capire quanto è credibile quel carteggio che, contempla anche le spese per il “disbrigo delle pratiche finali”. E’ un report che ha una storia tutta sua, particolare. E che, sembra appartenere più al copione di un trucco di Houdini che a una storia vera.

Alcuni anni prima, tra il 29 e 30 Marzo del 2014, qualcuno entrò nel palazzo della Prefettura degli affari economici. Istituzione vaticana che affaccia su piazza San Pietro. Chi entra, lo fa senza dover forzare nessuna serratura dei portoni che oltrepassaCome nella rapina al caveau della Banca di Roma nella cittadella giudiziaria. Rovista al primo piano in qualche cassetto, dove troverà qualche lira, e si dirige sicuro verso le stanze che contengono una cassaforte e dodici armadietti blindati. Come per le cassette di sicurezza nel caveau del Tribunale, chi sta forzando le serrature sa esattamente quale armadietto aprire. E conosce l’ubicazione della cassaforte. Molto probabilmente, anche il suo contenuto.  Aprono tutto con una fiamma ossidrica, una modalità tipica dei “cassettari”.

Agostino Casaroli

Il furto è scoperto il giorno dopo ma, come nelle storie a lieto fine, il sottratto ritorna quasi un mese dopo. Con “quasi” tutto il materiale sottratto dentro un normalissimo plico.  A detta del prelato, responsabile dell’ufficio, ciò che torna è come era sparito. Non si capisce se quel report su Emanuela Orlandi, che risulterà falso nella sua costruzione ma, fino a prova contraria verosimile, sia stato rubato e restituito o aggiunto nel plico. Di certo è che il prelato, davanti al Promotore di giustizia dell’epoca, non ha eccepito sulla presenza del documento stesso e che, insieme agli scambi scambi epistolari di Michele Sindona con qualche alto prelato e le lettere in cui si cita quell’Ortolani legato a Licio Gelli, li ha definiti “documenti sgradevoli”. Particolari che innescano una serie di riflessioni a voce alta. Ci sono molti modi per depistare o mandare messaggi nascosti. Messaggi che solo chi sa decifrarli può accedervi. In questo caso, questo report, non ha lo scopo di depistare ma di comunicare. E lo fa con un documento verosimile che riprende alcuni passaggi che seguono la logica della verità.

Usando un minimo di buon senso, si capisce che dietro tutto ciò si nasconde un ricatto.  Chi possiede le carte originali, mai avrebbe consegnato a Fittipaldi la” pistola fumante”. Il vantaggio del ricattatore svanirebbe. L’avrebbe modificato, l’avrebbe consegnato per essere a prima vista credibile, inserendo degli elementi che certificassero però la non originalità del documento stesso. Sarebbe stato pubblicato e sarebbe stato poi smentito da una ricerca dei dettagli più accurata, come l’indirizzo volutamente sbagliato. Come la parola Commando 1, riferita al gruppo che cercava Emanuela, con a capo Agostino Casaroli. Un nome più militare che spirituale, per un gruppo legato alla Chiesa.

Chi ha voluto far passare questo messaggio conosceva il peso mediatico del caso Orlandi, sapeva che sarebbe diventata notizia da prima pagina e Tg. L’avvertimento, il messaggio ricattatorio al vero destinatario di questa missiva, sarebbe arrivato. Puntuale e preoccupante. Non poco, visto l’argomento.

Il 20 Luglio 2017, cade l’accusa di associazione mafiosa per Massimo Carminati

Fate attenzione però, questo è un messaggio senza postino.

TERZA PARTE

Abbiamo attraversato decenni con questa inchiesta. Passo dopo passo abbiamo iniziato a legare un pezzo dopo l’altro. Abbiamo visto come fatto dopo fatto, ci siano dei punti di contatto. Congetture, certo. Non così estranee alla realtà. Ora, è tempo di chiudere queste due estremità in un nodo, che possa disegnare l’intero scenario.

Se i fatti fossero oggetti e li mettessimo disposti su un tavolo avremmo l’eredità criminale di De Pedis, i documenti sottratti scientificamente nel caveau del Tribunale di Roma. Avremmo la frase di Carminati che “ricorda”, durante il processo di Mafia Capitale, che quei dossier sono nelle sue mani. Avremmo una caccia al tesoro del “cecato”, che porta nella Londra dei suoi sodali Tiraboschi e Spadavecchia. Avremmo un documento apocrifo ma verosimile, fatto emergere da vicini al Vaticano, pochi giorni dopo le uscite mediatiche sul tesoro di Carminati.  Avremmo un furto in una delle istituzioni della Santa Sede con modalità simili alla razzia del caveau. Avremmo l’assoluzione di Carminati dall’accusa di associazione di stampo mafioso in primo grado e quella in Cassazione. Avremmo dei nomi che ricorrono, nomi che emergono e scompaiono. Per tornare dieci anni dopo, come Giuseppe Pignatone, Alessandro Diddi, Agostino Casaroli .

Tutti nomi e fatti reali, cui manca un piccolo tassello. Il collante che ponga Londra come ombelico di questa storia. Non per scoprire la verità su Emanuela Orlandi. Ma per pensare ragionevolmente che qualcuno abbia delle carte, o altro, che giustifichi un ricatto basato sul rapimento di Emanuela Orlandi. E dietro ogni ricatto c’è una porzione di verità che si mette in vendita. Qualcosa di indicibile da mantenere nell’oscurità più profonda. Che giustifichi, in questo caso, il silenzio assordante del Vaticano e dei suoi fiancheggiatori.

La lettera a Poletti

E’ il 4 Aprile di quest’anno quando Pietro Orlandi, durante la trasmissione Di Martedì, afferma di essere entrato in possesso di una lettera spedita dall’arcivescovo di Canterbury George Carey al cardinale Ugo Poletti. Una richiesta d’incontro tra e due alte cariche delle due Chiese per parlare di Emanuela Orlandi. La notizia rimbalza su tutte le agenzie e Pietro afferma la volontà di portarla al Promotore di giustizia Alessandro Diddi per metterla agli atti nell’inchiesta aperta dal Vaticano. Inchiesta che inizia con un ritardo sospetto, e colpevole, di appena quarant’anni.

E’ nei primi giorni di Maggio che la foto e il contenuto di questa lettera diventano di dominio  pubblico. Pochi giorni e, come nel caso dei documenti usciti dal Vaticano, risulta essere un falso. Almeno nella forma.  E’ il giornale di Enrico Mentana, Open, a scoprire le incongruenze tramite una grafologa forense. Marchiando la lettera come forma di depistaggio. Un giudizio decisamente tranchant, veloce, privo di analisi su che forma di depistaggio fosse, con quale fine, per agevolare cosa. Domande banali, per chi dovrebbe coltivare il dubbio come professione.

Enrico Mentana

L’evidenza è che, questa lettera, è stata composta nei contenuti in modo credibile. Con l’effettiva presenza di Poletti a Londra nella data cui fa riferimento la missiva, con l’esatto indirizzo cui facevano riferimento i documenti consegnati a Emiliano Fittipaldi nel 2017. Soprattutto, che senso avrebbe depistare puntando il dito sul Vaticano, che è il primo, e unico, sospettato da anni. Perché i depistatori dovrebbero puntare ancora su Londra? Quali altre piste devono coprire? Quelle di Alì Agca? Di Accetti? Quelle di alcuni giornalisti fantasiosi e opportunisti?  Che senso avrebbe creare un depistaggio con un documento facilmente smentibile? Se volessi essere cattivo, potrei pensare che la lettera sia stata creata da ambienti vicini al Vaticano, proprio per essere smentita e permettere a Diddi di suonare la grancassa contro la pista pedofila, che è emersa forte nei mesi successivi Potrei esserlo, ma lo farei solo per dimostrare che certa informazione è puro interesse. Senza neanche uno spiraglio di onestà intellettuale.  

La verità è che la lettera non è un depistaggio. Come nel carteggio uscito dal Vaticano, è un messaggio. Una delle modalità preferite da un sottobosco romano che vive di ricatti, di documenti riservati, di merce di scambio per interessi di varia natura.

La domanda che bisogna porsi è: chi l’ha data a Pietro Orlandi, era solo un messaggero o era direttamente chi deteneva la documentazione scottante?

Dai Nar al ruolo di postino, la parabola di “Antonio”

E’ qui che si staglia la figura di “Antonio il postino”, nome fittizio che contatta Pietro Orlandi a Novembre da una mail non rintracciabile. Lui ne riceve sempre parecchie tramite il blog dedicato a sua sorella. Solitamente sono messaggi di sostegno e vicinanza. Raramente ormai, c’è chi cerca un contatto diretto perché ha bisogno di parlargli di “qualcosa”. Ed è così che passando i filtri di chi gestisce il blog, Antonio il Postino arriva al fratello di Emanuela. Ci sono due particolari che balzano agli occhi di Pietro immediatamente: Antonio dice di essere stato un militante dei Nar e che è rimasto a Londra per anni a lavorare nel campo dei trasporti. E forse lo è ancora. Antonio “il postino” sa benissimo che non può certo bastare questo, per dare credibilità a ciò che vorrebbe passare a Orlandi. Parla quindi di un senso di rimorso che si porta dietro da anni, racconta di fatti in cui è rimasto invischiato nel periodo militante, con nomi e cognomi riscontrabili. E’ dopo questo che “il postino” manda i primi documenti a Pietro, in cui spicca la lettera dell’Arcivescovo di Canterbury al cardinale Poletti.

La forma della lettera rivela che è un falso, il contenuto invece è credibile. Come nel caso del materiale uscito dalla cassaforte della Prefettura degli affari economici.

Pietro cerca di forzare la mano del “postino” per incontrarsi e avere da lui un memoriale che racconti tutto ciò che conosce di questa storia. Le risposte di Antonio sono sfuggenti. Accetta un colloquio telefonico che poi fa saltare. Parla di una seconda persona che, come lui è a conoscenza dei fatti ma che non vuole aiutare nessuno in questa storia e che, anzi, esorta tutti a non giocare con il fuoco. Prima di proseguire, Antonio, vuole vedere le reazioni che ci saranno dopo la pubblicazione della lettera. Una strana condizione, ma il materiale che sta consegnando non è banale. E’ ricercato. Troppo ricercato per essere frutto di un mitomane.

E le reazioni ci saranno alla pubblicazione della lettera. E’ in quel momento che Antonio” il Postino” inizia a scrivere la parola “paura” in modo troppo frequente, nei messaggi che si scambia con Pietro. Ha paura “che facciano fuori lui e la sua famiglia”. Lo scambio di messaggi finisce. La pista si è raffreddata.

Il filo che lega tuttoAtto finale

Resta però il vero nome di Antonio “il postino”. Un nome che corrisponde, come tutti i riferimenti che lui ha dato delle sue gesta militanti, delle sue relazioni con alcuni spontaneisti dei Nar. Qui il cerchio di questa inchiesta si chiude. “Il postino” era di un gruppo specifico dei Nar, che come abbiamo già spiegato non sono mai stati un monolite a livello di organizzazione. Erano gruppi diversi, con diversi modus operandi e diversi riferimenti anche “nella strada”. Il gruppo cui faceva riferimento Antonio era quello di Stefano Tiraboschi e di Stefano Soderini. Lui non è mai stato un primo livello, neanche un secondo. Era stato uno dei tanti che hanno partecipato a quella stagione di fuoco e sangue. Chi era il dominus del gruppo di Tiraboschi? Massimo Carminati. Che, come abbiamo visto nell’inchiesta dell’Espresso e di Report del 2017, era – secondo fonti investigative – di “casa” nella capitale inglese.

Ponte dei Frati Neri a Londra

Londra è l’ombelico del mondo. Ed è facile trovare vicende che prendono il sapore della spy-story o del mistero più profondo. Si è visto anche con la morte di Calvi. Sembra un grande quadro dove il giallo e il nero si mischiano perfettamente. E’ anche la città dove nascondersi meglio. Dove non servono documenti per farsi ricoverare in ospedale, dove le schede telefoniche le compri senza dare documenti, dove le patenti sono senza foto, dove puoi accedere all’uso di elettricità e gas senza dare il vero nome, dove puoi nascondere e curare una ragazza senza che nessuno verifichi le sue generalità . Tutto in nome della buonafede. E’ anche la città dove alcuni pezzi dei Nar sono andati a rifugiarsi dopo i terremoti giudiziari degli anni ’80. Pezzi diversi di gruppi diversi, da distinguere. Distinzione che molti non sanno o non vogliono sapere. Una parte del gruppo che faceva capo a Carminati, era ed è lì.

Analisi di un “bug”

Antonio “il postino”, già dal nome che si è voluto dare, certifica che il suo è un ruolo marginale, di contatto. Non è il mittenteL’obiettivo primario era far passare quel materiale, come da lui stesso sottolineato nel “vediamo le reazioni”. Perché? Probabilmente per riproporre lo stesso ricatto, messo in atto con i documenti usciti nel 2017. Anche la sua “paura”, come il suo “rimorso” è credibile fino a un certo punto. Infatti, dal primo contatto con Pietro Orlandi lui doveva essere consapevole che certi carteggi non sarebbero passati inosservati e non avrebbero messo lui in una posizione comoda. Eppure l’ha fatto.

Tutti i punti tracciati in questa inchiesta portano a un solo comun denominatore: Massimo Carminati. E sia chiaro, non si sta accusando nessuno. Se si analizzasse tutta questa storia “dall’alto”, si potrebbe dire che Il Re di Roma, ha acquisito dei documenti nel furto al Caveau che riguardavano il caso Orlandi, che li ha usati per richiamare più volte l’attenzione di chi temeva il contenuto degli stessi. Il tutto per risolvere i suoi problemi giudiziari (almeno in un caso). Che ha usato dei suoi “cavalli” per trasmettere i messaggi a chi lui conosceva bene, a chi poteva essergli utileE le sue relazioni sono svariate, frutto anche dell’eredità lasciatagli da De Pedis. Dal Vaticano ad ambienti del sottobosco romano. Intriso di uomini grigi, ex dei servizi segreti e politici. Non ha responsabilità su ciò che avvenne a Emanuela, ma potrebbe avere l’arma di ricatto che potrebbe inchiodare il Vaticano alle sue eventuali responsabilità.

Non è la prima volta che il nome di Carminati compare in questa vicenda. A livello giudiziario era stato sentito nel 2008 dai magistrati De Gasperis, Ormanni e Maisto. Tutti deceduti. A domanda sulla conoscenza ai fatti inerenti il rapimento di Emanuela Orlandi lui si limitò a dire:” prendo atto che a detta di una persona vicina al De Pedis, con riguardo alla scomparsa di Emanuela Orlandi, io potrei essere a conoscenza per averlo appreso dallo stesso De Pedis di notizie in ordine alla vicenda della scomparsa della ragazza, nulla so in merito. Secondo me, Mancini quando afferma di essere sicuro della responsabilità del De Pedis dice cosa assolutamente inventata anche perché all’epoca era detenuto. “

Una risposta sbrigativa e che non lasciava spazio a repliche o probabilmente mancavano dei pezzi del puzzle per incalzarlo.

Lui non è un personaggio qualunque e lo dimostrò anche ai primi di Febbraio del 2021, in una domanda diretta fatta dalla giornalista Beatrice Nencha, che seguiva il secondo Appello di Mafia Capitale, per Libero e Notte Criminale. La Nencha chiese a Carminati se sapesse qualcosa e se volesse parlare con Pietro Orlandi del rapimento della sorella Emanuela e dei legami con la Banda della Magliana. Lui rimase un attimo sorpreso e la sua espressione sembrava suggerire che lo avrebbe anche fatto, ma sarebbe stato controproducente per entrambi: “Noi non le abbiamo mai toccate le ragazzine. Pietro deve guardare in Vaticano”

FINE (PER ORA)