Perché vi raccontiamo del colloquio con Massimo Carminati, nell’attesa della sentenza di Appello Bis

di Beatrice Nencha

Mi è capitato pochissime volte di dover scrivere un articolo che non avrei voluto scrivere. Perché non penso si possa definire giornalismo la pratica di mettere se stessi al centro dell’attenzione dei lettori. Ho sempre pensato che quando è il giornalista a diventare la notizia, c’è qualche problema. E’ la prima volta che faccio un’eccezione, esclusivamente per un dovere di correttezza. Per evitare che, un domani, qualcuno possa ricostruire questa vicenda in maniera diversa.

Riccardo Brugia

Mi è capitato di avere un confronto, del tutto pacifico e per vari aspetti anche stimolante, perché basato su visioni ideologiche opposte, con Massimo Carminati. Condannato a 14 anni e mezzo, con l’accusa di avere costituito una associazione criminale semplice insieme a Riccardo Brugia e ad altri sodali del benzinaio di Corso Francia, per lui il procuratore generale Pietro Catalani ha chiesto una condanna a 11 anni. Del resto, in una delle prime udienze del maxi-processo iniziato a novembre 2015 nell’Aula bunker di Rebibbia, Carminati stesso aveva citato, tra le sue rare letture di cronaca, proprio NotteCriminale perché non omologato all’informazione mainstream. E appena è tornato libero, ci ha trovato on line. Non sempre, anzi forse quasi mai, ha gradito. Ma ci ha riconosciuto una visione del processo più ampia e indipendente, non forzatamente allineata alle tesi dell’accusa.

L’occasione del faccia a faccia è stata una delle ultime udienze del nuovo processo di Appello dell’inchiesta “Mondo di Mezzo” in corso a piazzale Clodio. Ultimo atto di quel maxi-processo che nacque come indagine “Catena” (1 e 2) e poi si fissò nell’opinione pubblica nazionale come “Mafia Capitale”. Caduta l’accusa di mafia, spazzata via dalla Cassazione il 22 ottobre 2019, da tempo l’ex uomo “nero” più potente di Roma, secondo tutte le cronache e le narrazioni filmiche oltre che per un curriculum criminale di tutto rispetto, da mesi è libero grazie alla decorrenza dei termini. Ed è libero anche di confrontarsi con una giornalista su quello che di lui ha scritto.

Chi ci ha seguito, su questa testata e sulle cronache nazionali di Libero, sa che non siamo mai stati teneri con lui e che non gli abbiamo risparmiato nulla. Di questo, Carminati è perfettamente cosciente ma ci ha riconosciuto come una voce fuori dal coro, nel taglio delle nostre cronache e nei giudizi. In oltre cinque anni di udienze, la maggior parte seguite tutte in presa diretta, abbiamo raccontato personaggi e vicende giudiziarie anche minori. Episodi fuori dal radar dei media, accaduti all’interno e all’esterno di Rebibbia. Atti alla mano, ascoltando anche fonti esterne al processo, abbiamo ricostruito fatti processuali ed episodi legati al suo passato criminale, rievocati nelle intercettazioni o da chi con lui ha interagito. E abbiamo rievocato fatti accaduti durante gli anni della sua “vicinanza” sia ai Nar che alla Banda della Magliana.

Maurizio Abbatino

Abbiamo scritto del suo rapporto divenuto conflittuale con Maurizio Abbatino, con Franco Giuseppucci uno dei fondatori e capi indiscussi della “bandaccia”. L’unico ad essersi pentito, e tra i pochi ancora in vita, dei sanguinari banditi che per oltre un decennio hanno tenuto sotto scacco la capitale e la nazione. L’unico a non aver chiesto sconti, a non avere appellato la sua condanna, che sta ancora scontando ai domiciliari, e l’unico che non ha mai ritrattato le sue accuse. Nemmeno quelle, pesantissime, mosse a Carminati. La principale è quella di essere stato il killer del giornalista Mino Pecorelli, freddato nella sua auto, nel quartiere Prati, il 20 marzo 1979. Accusa da cui Carminati è stato prosciolto nel 1999, al termine del lungo processo in Corte di Assise a Perugia, che ha visto alla sbarra anche l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti, i boss di Cosa Nostra Gaetano Badalamenti e Pippo Calò, l’ex magistrato e parlamentare Claudio Vitalone e il mafioso Michelangelo La Barbera, tutti quanti assolti per non aver commesso il fatto.

Il confonto che abbiamo avuto con Massimo Carminati è stato su alcune delle vicende trattate. Per conoscere la sua versione che prima, quando era in carcere al 41 bis, non sarebbe mai stato possibile ottenere. A differenza dei politici, che spesso mandano avanti i loro legali o le carte bollate, il Nero ci ha parlato direttamente. Anche per precisare due punti: la sua estraneità rispetto alla conoscenza vantata dall’imprenditore romano Gianluca Ius, “Siamo finiti entrambi indagati in questo processo ma non lo avevo mai conosciuto prima”; e la sua distanza dalle accuse, tra cui il tentativo di depistaggio della strage di Bologna (per cui fu condannato a 9 anni in primo grado e poi assolto dalla Corte di Assise di Appello di Bologna nel 2001), rivoltegli in passato sempre da Abbatino, “che ha mentito, non solo con me, per sbarazzarsi di persone che in libertà gli potevano dare fastidio”.

Fabio Gaudenzi e Fabrizio Piscitelli

Due puntualizzazioni, pacate e non equivocabili, nemmeno per chi volesse imbastirci sopra altre storie. Di altre cose che gli abbiamo chiesto, tra cui una vicenda rimasta ad oggi incomprensibile, ovvero le dichiarazioni rilasciate dal camerata Fabio Gaudenzi sull’esistenza di una banda dei “Fascisti di Roma Nord” con a capo proprio Carminati e sulla sua decisione di parlare solo con il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, l’ex sodale di Salvatore Buzzi è stato tranchant: “Le cose che non mi interessano, non le voglio neanche sapere. Dalla morte di Elio Di Scala (meglio noto come Kapplerino, ndr), che è rimasto ucciso per proteggerlo, Gaudenzi non si è mai più ripreso”.

Filippo Maria Macchi

Eppure, secondo noi la video-confessione di Gaudenzi, coinvolto nella “truffa dell’oro” in Africa insieme a Filippo Maria Macchi, andrebbe approfondita. Per tentare di decifrare i messaggi che il neofascista, soprannominato “Rommel” dai vecchi camerati, ha voluto inviare il 3 settembre 2019. A meno di un mese dall’omicidio del capo ultras Fabrizio Piscitelli, alias “Diabolik”, e a pochi mesi dalla sentenza di Cassazione su Mafia Capitale. Ma anche pochi mesi dopo lo scoppio del cosiddetto PalamaraGate, a maggio del 2019, con la Procura di Roma già in fibrillazione. La tempistica, nella diffusione di questa confessione shock fatta con un’arma in mano, non sembra fatta a caso. E che significato hanno, e a chi sono rivolti, i minacciosi proclami che Gaudenzi ha voluto inviare? Erano solo farneticazioni per essere protetto in carcere, o messaggi che qualcun altro gli ha “suggerito” di indirizzare?

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